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Itanglese: una questione di buonsenso

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Torno sul tema dell’itanglese: chi volesse un riassunto delle puntate precedenti trova una sintesi, e qualche conclusione provvisoria, a questa pagina.
Ma intanto: itanglese, come dice il dizionario Hoepli o itangliano, come scrive l’Enciclopedia Treccani (che, però, registra anche itanglese)?
Vanno bene entrambi, sembrerebbe. Il linguista Alessandro Aresti parla scherzosamente di morbus itanglicus: quell’italiano traboccante di anglicismi che si infiltra anche nella pratica linguistica quotidiana.

La parola-chiave è “traboccante”: siamo arrivati al punto che, in certi casi, è più nota al comune parlante la voce inglese della corrispondente italiana, scrive il linguista Gianluigi Beccaria. O al punto che perfino per descrivere l’italianissimo costume di imbrogliare a scuola si adopera una parola inglese come cheating, peraltro ignota ai più, nell’illusione che sia più precisa. Cosa che tra l’altro, come rileva Licia Corbolante nel suo blog, non è per niente vera.
Già che siete su quelle pagine, se volete, guardatevi anche l’articolo sugli anglicismi che affollano il documento governativo La buona scuola, e quello sul nome Verybello, sconsideratamente adottato per il nuovo sito di appuntamenti turistici promosso del Ministero dei Beni Culturali.

Questa mania dell’itanglese potrebbe apparire come l’ennesimo vezzo nazionale, vagamente irritante e un po’ provinciale sì, ma tutto sommato non troppo grave, se non fosse che…
… se non fosse che, per esempio, quando poi si tratta di parlare o scrivere davvero in una lingua straniera, come avviene nel caso del sito di Expo, si fanno dei begli scivoloni. Aggiungo che probabilmente anche il testo italiano di partenza non è granché.
… e se non fosse che in certi ambiti e in certi discorsi l’uso dei termini inglesi ormai appare pervasivo. Basta, per esempio, farsi un giro su Linkedin (il sito, tra l’altro, esordisce con un buffo Hai tutto un mondo di informazioni a portata di tap) per scoprire una fioritura di strategist e analyst, di executive e di supervisor, di global director, partner, manager, consultant, editor e professor, president e member of the board, producer, teacher, journalist, organizer, specialist.
Al mio profilo sono state aggiunte dai miei contatti (che ringrazio comunque davvero per la fiducia e la gentilezza) aree di competenza inglesi il cui stesso significato mi risulta vagamente oscuro.

Ma, provando a quantificare, qual è il punto a cui siamo arrivati con l’itanglese? Agostini Associati nel 2014 ripete una ricerca sulla tendenza a importare termini inglesi nei discorsi italiani e registra un incremento del fenomeno pari al 440%. Ancora Agostini Associati pubblica una guida all’uso dei termini inglesi in italiano: se volete darle un’occhiata, la trovate qui. La posizione assunta dagli estensori è piuttosto radicale.
Anch’io credo che sia opportuno prestare attenzione al fenomeno, ma sono convinta che funzioni meglio la persuasione invece che l’accusa, il lento lavoro consistente nel diffondere una nuova sensibilità invece che lo stigma.

Vorrei chiarire tre cose.
La prima: oltre a parlare e a scrivere in italiano, leggo e scrivo decentemente in inglese, e parlo in milanese non appena (esperienza sempre più rara) trovo qualcuno che lo capisce. Vorrei conoscere l’inglese molto meglio. Vorrei poter parlare milanese più spesso (è un dialetto espressivo e bellissimo). E mi piacerebbe assai sapere più di qualche parola di spagnolo o di francese. Le lingue, comprese quelle che noi chiamiamo dialetti perché “non hanno un esercito”, sono sempre una ricchezza.
La seconda: ho già scritto che essere bilingui è un vantaggio sotto mille aspetti. Non ultimo il fatto che chi è bilingue, e lo dicono le ricerche, invecchia meglio e resta lucido più a lungo.
Le terza: spargere a capocchia tante, troppe parole inglesi in un discorso italiano è una cosa diversa dall’essere bilingui, o dal parlare bene le lingue conoscendo il significato delle parole di ognuna.
E ancora: alcune parole inglesi non hanno semplici ed efficaci equivalenti italiani e non possiamo non usarle. Ma anche se una parola inglese non indispensabile entra in un buon discorso, beh, è un po’ come una spezia esotica aggiunta a un piatto ben cucinato, e ci può stare.
Però, dire una parola inglese su tre per pura sciatteria linguistica è un po’ come mettere il ketchup sui maccheroni per pura sciatteria culinaria: il risultato, in entrambi i casi, rischia di essere stomachevole.
Insomma, sono convinta che la questione non riguardi (per carità!) il preservare un’inesistente “purezza della lingua”: le lingue vive cambiano, e restano vive anche cambiando, contaminandosi, prestandosi parole a vicenda. La questione, come molte questioni che riguardano ciò che è vivo, compreso il nostro pianeta, riguarda il buonsenso, l’attenzione, la consapevolezza, la lungimiranza, la cura e la misura.

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